Kentuki è un romanzo dell’autrice argentina Samanta Schweblin, uscito in Italia per l’editore SUR a Settembre del 2019, che ho letto con molto piacere grazie a un gruppo di lettura a tema fantastico che si svolge (per ora svolgeva, ma confido che tornerà) nella mia libreria di fiducia.
Ad un certo punto, come dal niente, scoppia nel mondo l’ennesima moda tecnologica: si diffondono a macchia d’olio i kentuki, dei pupazzetti con le fattezze di vari animali, la cui feature principale è quella che sono completamente controllati a distanza da un utente anonimo, con pieno accesso a occhi e orecchie del simpatico pupazzetto (ma non la bocca, sono muti). Ma non è come potrebbe sembrare, cioè che uno li compra e poi scopre che sono dei robot, no; la gente li acquista consapevolmente e, anzi, proprio perché sa che dall’altra parte c’è qualcuno che nel più completo anonimato li segue e li guarda. È una tecnologia duplice: non si tratta solo di essere osservati, ma anche di osservare. Chi si interessa ai kentuki deve infatti compiere una scelta importante: mettersi in casa un kentuki o diventare il kentuki di qualcun altro?
Anche se per ragioni diverse da persona a persona, la moda colpisce tutti indipendentemente da età, sesso e ceto sociale: quello che accomuna tutti i personaggi coinvolti nel romanzo è un profondo senso di solitudine o di abbandono da cui sperano di fuggire grazie a questa tecnologia che, grazie al suo anonimato e al fatto che il pupazzetto possa solo vedere e ascoltare, garantisce rispetto a chat e social network un bassissimo grado di comunicazione. Le relazioni sono ridotte alla scelta se essere spettacolo o spettatore.
Andando avanti nel romanzo ognuno di questi rapporti che si creano tra persona e kentuki tuttavia degenerano man mano che il rapporto si fa inevitabilmente morboso o, in alcuni casi, qualcosa di scioccante lo alteri irreparabilmente.
Subentra di soppiatto, a un certo punto di Kentuki, il tema della responsabilità, una cosa quanto mai attuale. La spersonificazione totale di questo rapporto umano-kentuki porta alla inevitabile mistificazione del concetto di responsabilità e coscienza. Quanto siamo realmente responsabili di cose che avvengono dove non siamo materialmente presenti ma di cui vediamo, senza che altri lo sappiano, tutto quello che succede? Abbiamo il coraggio di mettere da parte il nostro comodo anonimato, indagare e farci avanti? Non è più semplice scollegarsi e far tornare il kentuki un pupazzetto inanimato?
Kentuki è un romanzo strano, sia nella forma che nel genere. Prima di tutto perché non è costruito come un romanzo canonico ma come un insieme di racconti che vanno a comporre un quadro generale: qualcuno dura un capitolo, altri ti accompagnano procedendo alternati fino alla fine. Sebbene questo tipo di romanzo a me generalmente piaccia poco (perché soffro tantissimo i racconti, poi magari un giorno approfondisco questo mio problema), qui l’ho trovato gestito molto bene e perfettamente adatto a quello che si racconta. È come se il lettore si trovasse a fare zapping tra le trasmissioni dei vari Kentuki in giro per il mondo, ora un po’ qui ora un po’ là.
A livello di genere la sua stranezza è quella di sembrare a prima vista un romanzo velatamente fantascientifico, magari distopico, ma poi a guardarlo bene non è niente di tutto questo. In Kentuki non c’è niente di futuristico né tantomeno una società portata all’estremo: il tempo è il presente, la società la nostra e la tecnologia in uso è una cosa che potrebbe trovarsi in commercio domani. Ma senza scomodare troppo i kentuki, direi che molte delle cose descritte nel romanzo sono già la normalità, solo su scala e con strumenti diversi.
Editore: SUR
Pagine: 230
ISBN: 9788869981791
Link utili: La pagina dell’editore – La wiki dell’autore
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